Il “food designer e ingegnere culinario” che più di ogni altro rappresenta l’artista concettuale tra tutti gli chef
“Finalmente ci ritroviamo”. Quante volte negli ultimi 12 mesi abbiamo sospirato la pronuncia di questo avverbio un po’ desueto fino a Marzo 2020, quando tutto era ancora a portata di mano, di automobile, di aereo e la libertà d’azione e di movimento pareva un assioma irremovibile. E cosa dovrebbero dire allora i musei, le fondazioni e tutte le strutture ricettive tra cui ci sono gli hotel e i ristoranti.
Sia ben chiaro, essendo io un sedicente imprenditore, prima ancora che uno scrittore (per vostra fortuna), il mio sprono a resistere, il “memento audere semper”, va a tutta la categoria di albergatori e ristoratori, detto ciò è però chiaro che MANGIARTE parla di cucina come forma d’arte e degli chef come artisti.
Dunque il motto dannunziano è da intendere nel senso più futurista del termine dato che mai come questa volta sarà necessario dare un taglio netto col passato, rinnegare il modo di fruire della ristorazione e di godere del cibo dal momento che come un museo chiuso non consente la fruizione di un’opera d’arte, parimenti un ristorante chiuso toglie una parte emozionale importante dell’aspetto degustativo, cominciando dall’impiattamento, topic gastronomico di grandi e piccini, per finire alla location passando attraverso il servizio e la mise en place.
E anche se ciò che sto per dire forse è in antitesi con lo spirito imprenditoriale e con l’audacia dei ristoratori che auspicavo prima, il take away non può essere la nuova forma di prendersi cura di noi stessi attraverso il cibo.
Si tratta sempre di curarci l’anima attraverso bellezza e bontà, che poi sono unite in una molecola primordiale, sia tale cura rappresentata da una frittura di pesce mangiata nel cono di carta (Pop Art), da un’insalata di pasta fredda con caviale e erba cipollina al Marchesino (Transavanguardia), oppure da un “bollito non bollito” della Francescana (Metafisica).
Così, se cerchiamo di far stare in equilibrio arte ed economia, vi dico che è potenzialmente pericoloso il miraggio che le cose tornino esattamente come prima riguardo al comparto della ristorazione per le ovvie difficoltà di fruizione di massa; un settore che in Italia ha prodotto nel 2019 ben 86 miliardi di euro di giro d’affari (il dato più alto in Europa dopo Regno Unito e Spagna), per 1,2 milioni di posti di lavoro.
Ma nel frattempo se al piatto sottraiamo il luogo, la cucina e soprattutto la mano dell’artista, cosa rimane? O forse l’opera ha finalmente l’occasione in tal modo di riflettere la sua verità e quella del suo autore?
Ed è così che continuando a perseguire il “modestissimo” scopo che si prefigge MANGIARTE di annoverare l’alta cucina tra le Belle Arti, possiamo addentrarci nel percorso culturale che ha portato i grandi chef a formarsi e a creare il patrimonio di cui possiamo godere oggi.
Di conseguenza in questo terzo numero di MANGIARTE vi racconto in breve di colui che ama definirsi “food designer e ingegnere culinario” e che più di ogni altro per me rappresenta l’artista concettuale tra tutti gli chef, Davide Scabin con il suo Combal.Zero che nel 2002 è stato il primo ristorante d’Italia ad aprire all’interno del museo di arte contemporanea che trova luogo in un castello del XIII secolo a Rivoli.
Tra i tanti piatti che nell’ultimo ventennio lo hanno portato ai massimi livelli della scena internazionale, la sua creazione più iconica è senza ombra di dubbio il Cyber Egg, un tuorlo con 4 gocce di vodka adagiato su un letto di caviale, scalogno e pepe al quale è stato ricreato un guscio di pellicola trasparente, servito in un cubo anch’esso trasparente.
La concettualità di questa composizione sta nel fatto che è visivamente asettica, inodore e insapore, dunque non lascia modo al nostro cervello di prepararsi all’esperienza gustativa. Non resta pertanto che incidere la pellicola con un vero bisturi e suggere il contenuto tutto d’un fiato, come dal capezzolo della vita di cui l’uovo rappresenta la forma perfetta. Solo allora scopriremo l’esplosione in rapida sequenza della dolce cremosità del tuorlo marinato dalla vodka contrastata dalla masticabile salinità dei 20 grammi di caviale.
Che cos’è questo se non erotismo allo stato puro?
Per Davide Scabin è il design a prevalere su tutto già a partire dalla cucina. Un design di sistema, per avere il controllo dei gusti primari, per individuarli e percepirli.
Purtroppo il Combal, dopo vent’anni di avanguardia ha chiuso a tempo indeterminato con l’avvento della prima ondata di Covid a inizio primavera 2020 e non ha fatto sapere quando e se mai riaprirà. Credo sia stata una scelta e nulla di diverso mi sarei aspettato da un genio come Scabin, ingegnere del gusto, archistar del piatto, poco incline a compromessi di forma che mal si sposano con la filosofia dell’alta cucina e col pragmatismo che sembra rappresentare lo chef di Rivoli.
D’altronde si sa, Scabin non è nuovo a lunghi periodi sabbatici nei quali studia, pensa e magari potrà reinventare il delivery food italiano di qualità, un Italian fast food che a differenza dello street food abbia un’ergonomia, una sua tecnologia di consumo sviluppata. Chissà dunque che Scabin non ricompaia nella sua Rivoli o magari a New York con una nuova forma di delivery food gourmet.
Dato che sognare non costa nulla e i sogni sono solo il preambolo della realtà, io ci spero, almeno fino a Giugno quando un’improcrastinabile necessità economica d’incanto troverà la via per riaprire i ristoranti di ogni rango ed il Covid verrà come l’anno scorso temporaneamente mandato in ferie con un colpo d’ombrellone.
di Francesco Chiari
Aspirante collezionista di opere culinarie contemporanee.