“L’Alta cucina entrerà di diritto nel novero artistico”
grazie alla genialità di uno chef che svetta su tutti gli altri per la sua grande empatia, senza alcun spirito di competizione… sto parlando del Maestro Gualtiero Marchesi
Spesso mi domando se la cucina sia un’arte dato che in casa sono sempre stato sensibilizzato a guardare ad occhi chiusi, ad ascoltare con l’anima, ad assaporare col cuore. Ciò accadeva naturalmente, senza lezioni o esercizi, nel focolare domestico, coi quadri appesi alle pareti e il cibo che imbandiva la tavola. Intendiamoci, non che vivessi in un museo né che la mamma e le nonne passassero la giornata a cucinare, ma c’era un tessuto connettivo in tutto ciò, una trama ordito fatta da un intreccio di passione ed empatia, che rendeva il bello magnifico e il buono squisito.
Ecco come si trasforma, attraverso l’uso delle mani e della tecnica, la mescolanza di semplici materie eduli in un’opera d’arte. Nel suo significato più sublime l’arte, infatti, è definibile come l’espressione estetica dell’interiorità e dell’animo umano. Pertanto l’arte è un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi, mentre il termine “empatia” è stato coniato solamente un secolo fa dal filosofo Robert Vischer (1847-1933) che ne ha anche definito per la prima volta il significato specifico di simpatia estetica. Quando l’empatia si rapporta con la cosiddetta “cultura alta” assume il significato di sentimento, non altrimenti definibile, che si prova di fronte ad un’opera d’arte. Dunque, secondo tale filosofia, il gesto di cucinare diventa arte ogni qual volta viene eseguito allo scopo di nutrire l’anima, non di riempire lo stomaco.
”Noi siamo quello che mangiamo”
Ad asserirlo il filosofo tedesco Feuerbach. Ecco perché nel nostro intimo diventa arte anche la piadina con la Nutella che la mamma ci preparava per merenda, oppure le lasagne domenicali della nonna e di conseguenza le due “sante donne” diventano le artiste nel senso francescano del termine, secondo il quale “Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista.”
In un senso più stretto, invece, si definisce artista un creatore di opere dotate di valore estetico nei campi della pittura, della musica, dell’architettura, del disegno, della scrittura, della scultura, della danza e per ultime in ordine temporale della regia (cinematografica, teatrale e televisiva), della fotografia e della recitazione.
D’altronde la società cambia sotto l’influenza della storia, evolve nel tempo e con essa le forme d’arte, complice la genialità di artisti che si sono cimentati in questi campi nel corso del ‘900; si pensi ad esempio a quanto il nostro Federico Fellini abbia contribuito con le sue opere affinché il cinema venisse annoverato tra le nuove arti. Credo perciò che entro la conclusione del decennio appena iniziato l’alta cucina entrerà di diritto nel novero artistico, ancora una volta grazie alla genialità di uno chef che svetta su tutti gli altri per la sua grande empatia, senza peraltro alcuno spirito di competizione. Sto parlando del Maestro Gualtiero Marchesi (1930-2017), grande cultore e sostenitore per tutta la sua vita del legame tra cucina e arte. Egli asseriva che: “La cucina è di per sé scienza, sta al cuoco farla diventare arte”.
Che cosa sono d’altronde il riso oro e zafferano o il dripping di pesce se non vere e proprie opere d’arte? Se non nella loro conservabilità e trasferibilità ai posteri certamente lo sono in quanto ad arte concettuale nell’atto del concepimento e nella ripetitività d’esecuzione, molto vicine in tal senso anche al concetto di Pop art definito da Andy Warhol in The Factory. Il primo è un risotto eseguito al contrario, tostando il riso nel burro, colorato coi soli stigmi di zafferano e tirato con un brodo di pollo, viene mantecato alla fine con un siero di burro aromatizzato con cipolla precedentemente filtrato. Semplice e sfacciatamente glamour, come la “Milano da bere” dove è stato inventato, viene guarnito a ricordo della Madonnina con una vera foglio d’oro edule di spessore molecolare che si scioglie al primo tocco di forchetta.
Nel secondo, ispirato dalla tecnica di Jackson Pollock, il Maestro Marchesi sgocciola su una tela fatta di maionese altre salse colorate in un perfetto ordine casuale, ricreando un mare ideale dove nuotano telline e calamaretti.(foto) Dirò di più, l’alta cucina ha il potenziale per esprimere un’arte “aumentata”, per usare un’aggettivazione tanto cara ai fruitori di smart technology d’oggi.
Essa, infatti, coinvolge tutti i cinque sensi e racchiude in sé più forme d’arte e più correnti artistiche nel concepimento di un piatto e ancor più di un percorso culturale raccontato in un menù, frutto di anni di ricerca, espressione di una produzione temporale, proprio come accade ai pittori e agli scultori quali ad esempio Lucio Fontana, Piero Manzoni e Alberto Burri, amici del Maestro Marchesi, frequentatori dei suoi ristoranti e anch’essi ispiratori dei suoi piatti come il mitico uovo al Burri, preliminarmente cotto a bassa temperatura e quindi offertosi in assoluto candore alla violazione del fuoco della fiamma ossidrica, alla stregua di quella usata in molte opere da questo artista.
“Che cosa sono d’altronde il riso oro e zafferano o il dripping di pesce se non vere e proprie opere d’arte?”
Non saprei dire quanto l’arte influenzi la cucina e viceversa, penso piuttosto sia una straordinaria sinergia quella che lega indissolubilmente queste due forme espressive. Partendo da Gualtiero Marchesi e andando a ritroso nel tempo sono tanti gli esempi di artisti che ebbero tanto a cuore l’alta gastronomia. “Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo.” Così diceva Gioacchino Rossini, ideatore dell’omonimo Filetto alla Rossini, lussureggiante torre tripudio di sapori formata alla base da un filetto di manzo su cui viene sovrapposta una scaloppa di foie gras, il tutto ricoperto da scaglie di tartufo nero.
Prima di sette ricette, tante quante le note, ideate e messe a punto insieme ad amici Chef del calibro di Alexandre Dumas padre, autore de Le Grand Dictionnaire de Cuisine e Anthelme Brillat-Savarin, il filetto alla Rossini rappresenta appieno la musica del compositore; gioiosa, pomposa e avvolgente è innovativamente impiattata in verticale.
E che dire del celeberrimo gestore d’osteria fiorentina “Le tre rane”, ideatore del menu della stessa, nonché progettista di utilissimi macchinari da cucina che risponde al nome di Leonardo Da Vinci? Non è tutto, la leggenda racconta che il letterato, pittore, scienziato e inventore avesse un socio in tale attività, un certo Sandro Botticelli. Vera o meno che sia questa storia di certo sappiamo che Leonardo fu per trent’anni Gran Maestro di feste a banchetti per Ludovico il Moro ed era talmente bravo che ad un certo punto decise di auto commissionarsi un banchetto davvero speciale: sembra che il genio rinascimentale si sia tolto lo sfizio di mettere in tavola, col pennello s’intende, durante “L’ultima cena” dei tranci d’anguilla arrosto serviti su fette d’arancia, piatto molto più vicino alle rive dell’Arno che non a quelle del Mar Morto, quasi a voler consigliare il piatto del giorno a quei commensali tanto particolari e al loro ospite d’onore.
Dunque, se per i primi 2000 anni da allora sono stati più gli artisti canonici a interessarsi alla cucina, sembra che la cultura del terzo millennio, al netto di decine di programmi televisivi e cuochi star che passano più ore sul set che hai fornelli, sia pronta a gustare con tutti i cinque sensi le opere d’arte dei nuovi chef artisti che stanno via via scoprendo, grazie alla breccia aperta da Gualtiero Marchesi, come usare quello che a tutti gli effetti è il sesto senso: l’empatia.
In futuro probabilmente la scala di bravura di uno chef sarà misurata, oltre che con le classiche stelle e forchette, con la sua capacità di mettere in risonanza empatica i propri neuroni specchio con quelli dei suoi clienti e magari, chissà, ci sarà una nuova divisione tra chef cuochi e chef artisti. Alziamo dunque i calici e brindiamo alla nascita di una nuova categoria tra le “belle arti”: la Mangiarte.
Prosit!
A cura di Francesco Chiari